Giorgio Vasari, Ultima Cena, 1546-1547, Museo dell’Opera di Santa Croce, Firenze

  • : Intervento di restauro
  • Stato attività: concluso

Dati

Informazioni sull’attività

Informazioni sull’opera

Informazioni storico-descrittive

Il dipinto era originariamente collocato nel refettorio del Convento delle Murate a Firenze. Il monastero aveva conosciuto una fase di grande espansione a partire dagli anni Trenta del Quattrocento sotto la direzione della madre badessa Scolastica Rondinelli che promosse la decorazione degli ambienti interni della struttura. Risalgono a questo periodo, ad esempio, la pala con l’ Annunciazione di Filippo Lippi oggi all’Alte Pinakothek, la Crocifissione di Neri di Bicci ed un Crocifisso scolpito da Baccio da Montelupo.
Vasari doveva essere in buoni rapporti con l’ambiente delle monache benedettine, in particolar modo con il convento delle Murate di Arezzo dove la sorella secondogenita aveva preso i voti. Lo stesso aretino in un passo delle Ricordanze (1527-1573) annota come nel novembre del 1546 le monache delle Murate di Firenze gli avessero commissionarono un «Cenacolo» diviso in cinque parti attraverso l’intermediazione di Giovan Maria Benintendi, un mecenate che rappresentava gli interessi collettivi delle benedettine. Negli ultimi mesi del 1546 Vasari dovette quindi preparare il modello con il disegno su carta – oggi al Staaltliche Graphische Summlung di Monaco – per siglare l’accordo, iniziando l’esecuzione della tavola all’inizio dell’anno seguente.
Altre notizie in merito si hanno nella autobiografia delle Vite dove si legge che fu Paolo III a finanziare l’ Ultima cena voluta soprattutto da Lelia Orsini Farnese, monaca delle Murate e parente dello stesso pontefice.
Tuttavia quanto si desume dalle Ricordanze e dalle Vite contrasta con una cronaca manoscritta del convento redatta sul finire del XVI secolo dove si evince che l’occasione per un dono così generoso sarebbe stata l’immatricolazione di una nuova consorella, Faustina Vitelli, figlia del noto condottiero Vitello Vitelli.
In occasione del recente restauro si è parlato per il dipinto del Vasari di una “committenza collettiva”: l’ingresso nel convento di Faustina Vitelli dovette costituire l’occasione per dar lustro a tutto il monastero allogando una nuova opera ad un artista ben noto ai Farnese facendone coprire i notevoli costi al pontefice anche attraverso l’attività di intermediazione di Lelia Orsini Farnese.
Nel 1810 l’Ultima Cena venne rimossa dal refettorio delle Murate e trasferita nei depositi del convento di San Marco per effetto del decreto imperiale del 23 settembre 1810 che sanciva di fatto la definitiva soppressione degli ordini religiosi.
Nel 1815 la pala, dopo esser stata restaurata, fu spostata alle spalle dell’altare della Cappella Castellani della Basilica di Santa Croce, ormai disadorna a causa della scialbatura degli affreschi trecenteschi avvenuta nel 1677.
Successivamente l’opera fu spostata prima nel “Refettorio d’Inverno” (oggi Studio Teologico) poi, a causa dei lavori di descialbatura avviati intorno al 1880, all’ingresso del cosiddetto «Uffizio» (i locali di residenza dell’Opera di Santa Croce) e infine in quello che era stato il refettorio del convento francescano poi trasformato in museo dopo la soppressione degli ordini religiosi. Il museo dell’opera fu aperto al pubblico nel novembre del 1900.
Nel 1959, a seguito dell’ampliamento del museo, il dipinto fu spostato nella prima sala del lato est dove rimase sino all’alluvione del 1966.

Tecnica esecutiva

L’Ultima Cena di Giorgio Vasari è un dipinto su tavola che presenta una sua particolare tecnica di costruzione. L’opera si sviluppa su una superficie complessiva alta 262 cm e larga 655 cm suddivisa in cinque pannelli realizzati in maniera indipendente e accostati per comporre un’unica scena.
Il supporto ligneo è stato realizzato con assi in legno di pioppo con uno spessore medio di 4 cm. Ognuno dei cinque scomparti ha dimensioni diverse ed è stato ricavato dall’assemblaggio di un numero differenti di assi (da tre a cinque) eterogenee per larghezza e tipo di taglio. Esse sono state giuntate a spigolo vivo con l’inserimento lungo le linee di commettitura di tre cavicchi, assicurati nelle loro sedi con l’inserimento nello spessore delle assi di due perni lignei del diametro di circa 6 mm.
Questo accorgimento risulta abbastanza raro nella costruzione dei supporti lignei con elementi interni cilindrici quali i cavicchi, al contrario risulta essere stato utilizzato con maggiore frequenza per gli elementi di collegamento più ampi e a forma di parallelepipedo come le ranghette.
Nello scomparto di destra la commettitura centrale presenta, insieme ai tre cavicchi, anche tre ranghette e risulta l’unica commettitura trattata con questo doppio sistema di assemblaggio.
Tutti i pannelli recano sul retro traccia di un sistema di contenimento basato su due traverse scorrevoli a coda di rondine inserite lungo lo spessore del supporto, ciò ad eccezione del registro centrale dove era stata posta in origine una traversa in più. Esse erano state originariamente posizionate ad altezze diverse per ogni pannello in modo che non interferissero tra loro.
Le cinque tavole erano tenute insieme da quattro cavicchi, uno per ognuno dei margini di contatto dei singoli scomparti, come testimoniano i fori ritrovati in queste zone durante il restauro.
La struttura, così assemblata, è stata inserita all’interno di una cornice a cui è stata collegata per mezzo di quattro elementi in legno posti nel bordo superiore dei tre pannelli centrali: due per il pannello centrale e uno per ognuno dei due pannelli adiacenti.
Le indagini diagnostiche, esperite in occasione del recente restauro, hanno consentito di rilevare la tecnica esecutiva. Più in particolare, le analisi radiografiche escludono sia la presenza dell’incamottatura al di sotto degli strati preparatori sia l’impiego di fibre vegetali lungo le commettiture delle assi. L’indagine Ft-IR, condotta su due campioni, ha rilevato la prevalenza di gesso in forma anidra come carica minerale della preparazione. La sezione stratigrafica ha invece evidenziato la stesura della preparazione a base di gesso e colla animale in due mani successive senza una sostanziale differenza granulometrica tra i due strati. L’osservazione a microscopio della sezione stratigrafica ha inoltre consentito di individuare la presenza di uno strato sottile, circa 15 µm, di un’imprimitura a base di olio e bianco di piombo variamente intonato a seconda delle tonalità delle campiture cromatiche sovrastanti. L’impiego dell’imprimitura è abbastanza comune nella pittura su tavola del Cinquecento ed è descritta dallo stesso Vasari nelle sue Vite. Essa consentiva di saturare la superficie in modo da evitare l’eccessivo assorbimento del legante durante la stesura pittorica e di conferire un sottofondo cromatico agli strati pittorici sovrastanti. Tra l’imprimitura e la preparazione venivano solitamente stese più mani di colla animale che però nel caso dell’Ultima Cena risultano essere assenti probabilmente anche a causa dell’interazione del dipinto con l’acqua dell’alluvione del 1966.
La riflettografia IR ha evidenziato il disegno preparatorio del dipinto. Lo schema della composizione riproduce quasi fedelmente il disegno attualmente conservato allo Staatliche Graphische Sammlung di Monaco, utilizzato come linea guida per una versione ingrandita della composizione, probabilmente attraverso un cartone
Vasari riportò probabilmente prima le sagome delle figure da un cartone, e poi lo spazio architettonico intorno ad esse con delle incisioni. Queste ultime, rilevate con l’analisi radiografica, si interrompono  infatti in prossimità dell’intersezione con le figure. Altre incisioni, di tipo circolare, si rilevano in corrispondenza di alcuni oggetti della mensa, come la bottiglia di vino tra le figure di San Pietro e Cristo e il bicchiere accanto a San Giovanni nello scomparto centrale, e sono state probabilmente realizzate con il compasso.
Gli strati pittorici consistono per la maggior parte in due stesure successive di spessori non molto elevati, generalmente inferiori a 50 µm. La campagna di indagini spettrometriche di fluorescenza ai raggi X effettuate su alcune campiture di colore confermano le indicazioni sul modo di dipingere che lo stesso Vasari riportava nelle Vite e nel primo capitolo del De la Pittura ovvero la distinzione in chiari, scuri e mezzi toni e l’uso di pigmenti puri usati in diverse gradazioni miscelandoli con bianco di piombo.

Storia conservativa

Nell’arco della sua storia conservativa l’opera è stata danneggiata più volte dalle alluvioni che interessarono la città di Firenze. È stato calcolato che dal 1500 al 1966 Firenze sia stata colpita almeno ventitré volte dalle esondazioni dell’Arno. L’inondazione del 1557 fu, insieme a quella del 1966, tra le più violente e arrivò probabilmente a sommergere l’intero dipinto. Le altre alluvioni furono invece più contenute e interessarono presumibilmente solo la parte inferiore della tavola. Per tali ragioni, già partire dalla fine del Cinquecento, l’Ultima Cena è stata soggetta a diversi interventi di restauro, come provano anche le scritte presenti nello scomparto centrale del dipinto. Esse testimoniano due interventi: il primo avvenuto nel 1593, il secondo eseguito nel 1718: Entrambi i restauri non furono documentati, ma presumibilmente dovevano essere legati ai danni causati dalle alluvioni del 1557 e del 1676. Successivamente, nel 1815, l’Opera di Santa Croce indisse un bando pubblico per scegliere i restauratori da impiegare nelle operazioni di restauro delle opere da essa custodite, affidando all’artista fiorentino Giovanni Francesco Corsi il restauro dell’Ultima Cena. Egli intervenne sia sul supporto che sulla superficie pittorica, ma non dovette risolvere a lungo i problemi conservativi dell’opera se nel 1819 il dipinto appariva «devastato da cattivi ritocchi antichi, tutto spaccato nelle commettiture». Nel 1956 si segnala un nuovo restauro, a cura del laboratorio del Gabinetto Restauri della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze. Le poche informazioni sulle operazioni svolte, desumibili essenzialmente dalla documentazione fotografica, attestano la riparazione parziale delle sconnessioni e delle fessurazioni delle assi, la reintegrazione delle mancanze del supporto dovute all’erosione degli insetti xilofagi e la fermatura del colore della parte bassa del dipinto. È inoltre probabile che le traverse originali, avendo ormai perso la loro funzionalità, siano state in gran parte sostituite proprio in questo intervento con un sistema a gattelli inseriti in scassi praticati nello spessore del tavolato. I lavori di restauro si resero probabilmente necessari oltre che per le condizioni conservative cui la tavola versava, anche per la nuova collocazione che sarebbe stata data al dipinto nel 1959 all’interno delle sale Museo di Santa Croce. Lì essa rimase sino all’alluvione del 4 novembre 1966 quando fu completamente sommersa dall’acqua. È stato accertato che i cinque pannelli dell’Ultima Cena rimasero totalmente immersi nell’acqua per circa dodici ore. Oltre all’azione dannosa dell’acqua, essi furono sottoposti a quella dei depositi di fango e di nafta nonché allo sviluppo di muffe e funghi. A ciò si aggiunse il rischio di subire ulteriori perdite della pellicola pittorica associate alle deformazioni e al ritiro del supporto ligneo in fase di asciugatura. Per tali ragioni si decise di velinare la pellicola pittorica con fogli di carta di diversa tipologia e resina acrilica in soluzione (Paraloid B72). I pannelli furono poi staccati dalla parete e messi in piano nello stesso museo. Lo stazionamento provvisorio delle opere nel luogo in cui esse si trovavano al momento dell’alluvione era stato pianificato per evitare la brusca diminuzione dell’umidità interna del legno, ma anche per consentire di predisporre un locale più adatto a raccogliere i dipinti danneggiati dall’alluvione dove fosse possibile procedere ad una lenta e graduale asciugatura dei dipinti. L’allora Soprintendente Ugo Procacci insieme a Umberto Baldini decisero con l’Istituto Centrale di Pasquale Rotondi e Giovanni Urbani di ricoverare le opere danneggiate nei locali della Limonaia di Boboli dove vennero istallati gli impianti di climatizzazione per il controllo dei parametri termoigrometrici ambientali. I cinque pannelli furono quindi trasportati dal Museo alla Limonaia dove subirono un trattamento antimuffa preliminare. Privati delle traverse, essi furono sottoposti a piccoli interventi di recupero del livello tra le commettiture: La commissione di esperti ritenne che l’opera, rispetto alle altre più danneggiate, potesse attendere il vero e proprio restauro così da documentare e monitorare la situazione e il comportamento in relazione all’umidità del supporto ligneo che durante la permanenza alla Limonaia era scesa dal 116 % a valori compresi tra il 30 %. e 20 % circa. Nel 1967 il dipinto fu trasferito ai Laboratori della Fortezza da Basso dove fu inserito in una camera climatica per stabilizzarne l’umidità. Dopo esser stata spostata in diversi depositi della città di Firenze, l’opera è ritornata alla Fortezza nel 2004 per essere restaurata.

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