
Un oggetto unico nel suo genere, strettamente legato alla storia della città di Firenze. Un restauro nato da un evento accidentale durante la liturgia
“Un oggetto d’arte non ripete il suo valore soltanto dai pregi tecnici, ma anche dalla causa che l’ha originato e dalla funzione che esso è chiamato a compiere”. Così scriveva Edouard Gerspach nel 1901 parlando del Portafuoco. L’oggetto, unico nel suo genere, è indissolubilmente legato alla storia civile e religiosa di Firenze. La tradizione vuole che Pazzino de’ Pazzi partecipasse, nel 1096, alla prima crociata e che riportasse in città tre schegge delle pietre del Santo Sepolcro. Queste erano custodite nella chiesa di Santa Maria Sopraporta, dedicata nel XV secolo a San Biagio, sotto la giurisdizione della Parte Guelfa. Con la soppressione della chiesa nel 1785, il titolo e gli arredi passarono alla chiesa dei Santi Apostoli. Le tre pietre venivano esposte alla venerazione pubblica la mattina del Sabato Santo e dal loro sfregamento si sprigionavano scintille che facevano ardere il fuoco sacro che serviva per accendere il cero pasquale. Dalla fine del Trecento, i Pazzi prendevano dalla chiesa di Santa Maria il cero acceso e i carboni ardenti per portarli in cattedrale su un carro da parata, accendendo durante il percorso i ceri dei cittadini che aspettavano il corteo sulle porte delle loro case. Non sappiamo come questi carboni venissero portati in cattedrale prima della realizzazione del quattrocentesco Portafuoco, anche se è probabile che la colomba d’argento potesse fare parte di un più antico oggetto. Ancora oggi il ‘sacro fuoco’ viene portato in Battistero, non più il Sabato Santo ma la Domenica di Pasqua, accompagnato in processione dall’arcivescovo di Firenze e da alcuni ‘tutori del fuoco’. Con esso, verranno accesi prima il Cero Pasquale e poi la colombina, in occasione del celebre scoppio del carro.
Il Portafuoco è il risultato dell’assemblaggio di due parti di epoche diverse. La colombina con le ali spiegate, che racchiude nel becco la riproduzione di una delle tre pietre, è ascrivibile al XIII secolo e la si trova citata per la prima volta nel 1378 in un inventario della chiesa di Santa Maria Sopraporta. L’altra parte dell’opera è invece databile all’ultimo quarto del XV secolo. Il braciere è costituito da un grosso nodo baccellato in rame dorato, all’interno del quale trovano posto i carboni ardenti. Dal nodo si dipartono due bracci, formati da rami ritorti con foglie di acanto terminanti in due riccioli che si riuniscono in alto per sorreggere la colombina, dopo aver incluso lo stemma della Parte Guelfa, un’aquila che afferra con gli artigli un drago. Gli storici hanno sempre ritenuto che il corpo principale fosse in ferro, in origine smaltato con i colori verde e rosso della Parte Guelfa e che solo in seguito alla perdita dello smalto l’insieme venisse argentato. In realtà l’oggetto è tutto in rame dorato e argentato e, in base alle osservazioni compiute durante il restauro, non risulta una originaria presenza di smalti. È quindi probabile che la patina verde del rame ossidato e le tracce rossastre ritrovate sull’aquila (riferibili a una resina) siano state scambiate per residui di smalto.
La criticità maggiore prima del restauro riguardava l’instabilità strutturale, generata da un insieme di cause aggravate dall’uso liturgico dell’opera. Un evento accidentale, avvenuto nell’aprile del 2012, ha procurato la parziale rifusione di una vecchia riparazione con brasatura dolce in lega di stagno, eseguita nella zona di connessione tra il braccio laterale sinistro e la parte superiore del braciere. L’altro importante problema riguardava la consistente perdita della doratura del nodo baccellato, in parte nascosta dal deposito di particelle carboniose derivanti dalla combustione ma anche indotta dal forte riscaldamento del metallo. Meno preoccupante, ma assai più appariscente, era l’alterazione delle parti argentee, offuscate da una patina disomogenea, di natura sulfurea, intensificata localmente in aree molto annerite, specialmente in prossimità delle aperture traforate del braciere.
La prima indispensabile operazione, funzionale alla separazione degli elementi, è stata lo smontaggio del Portafuoco, reso possibile dal sistema di ancoraggio tra le parti principali, semplicemente avvitate l’una all’altra. Gli elementi metallici sono stati sottoposti a pulitura, con la rimozione della patina sulfurea e degli annerimenti derivanti dal deposito di particelle di origine carboniosa tramite l’applicazione di una soluzione basica chelante gelificata. L’intervento sul nodo baccellato, la cui doratura si era notevolmente assottigliata, è stato particolarmente delicato, eseguito al microscopio ottico e con una rifinitura a mezzo laser. L’opera è stata utilizzata nella liturgia, almeno una volta l’anno, per alcuni secoli, il che spiega le molteplici riparazioni, riconducibili a più di un intervento nel corso della sua peculiare esistenza. Alcune di esse, ormai non più efficaci, sono state rimosse meccanicamente, mentre altre sono state consolidate con l’impiego di resina epossidica (fig. 5). Le tracce lasciate dalle riparazioni eseguite in passato e rimosse nel presente restauro sono state coperte in modo reversibile tramite integrazione a pennello, con acquerelli, oro e argento a conchiglia. L’intervento si è concluso con la stesura delle tradizionali vernici protettive, che garantiranno nel tempo la corretta conservazione del manufatto.
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