Artista non riconosciuto Madak, Tatanua, primi decenni del XX sec., Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

  • : Intervento di restauro
  • Stato attività: concluso

Dati

Informazioni sull’attività

Informazioni sull’opera

Informazioni storico-descrittive

Le maschere antropomorfe tatanua, tutte caratterizzate dalle grandi fauci e dall’acconciatura a cresta, provengono generalmente dalla parte settentrionale della Nuova Irlanda. Il termine tatanua fa parte del linguaggio tok pisin, in uso nelle regioni Kara e Tiget, poste a nord dell’isola; nel resto del territorio insulare, invece, queste maschere sono meno diffuse e comunque assumono altri nomi. Anche l’acconciatura è quella tipica degli uomini della Nuova Irlanda, esibita durante particolari occasioni cerimoniali.
Il manufatto appartiene ai primi decenni del XX secolo.
Le maschere tatanua venivano utilizzate durante una complessa serie di rituali per la commemorazione dei defunti, i malangan, che potevano durare diversi mesi e coinvolgere più clan, con l’apporto di ingenti sforzi anche economici. Nella fase finale e culminante del fastoso ciclo cerimoniale, i danzatori indossavano le maschere, abbinandole a un abito di colore rosso. L’esibizione, accompagnata dal suono di tamburi a fessura e di canti, iniziava con un singolo danzatore, cui se ne aggiungevano prima altri due e poi un intero gruppo. Si riteneva che gli spiriti dei defunti abitassero le maschere durante il rito, alla fine del quale si ritiravano dal mondo degli uomini. Per tale ragione, in epoca precoloniale questi manufatti venivano abbandonati o gettati via al termine delle cerimonie, in quanto ritenuti ormai contenitori vuoti e non più utilizzabili.
Alla fine degli anni ’50, Peggy Guggenheim arricchì di opere d’arte allora definite “primitive” la sua dimora veneziana e la sua collezione. Tale interesse trova le sue radici nel periodo della breve e tormentata relazione sentimentale con l’artista surrealista Max Ernst, con il quale visse a New York tra il 1941 e il 1943. È ampiamente documentata, anche dagli stessi racconti della Guggenheim, l’irrefrenabile passione che Ernst aveva soprattutto per manufatti provenienti dalle Americhe e dalle isole oceaniche, che comprava quasi compulsivamente ogni volta che vendeva un suo quadro e con cui riempiva la loro casa newyorkese. La maggior parte delle opere veniva acquistata dal proprietario di una delle maggiori gallerie d’arte di New York, l’ebreo berlinese rifugiato Julius Carlebach, che la collezionista conobbe personalmente nel ’42. Inoltre, vale la pena menzionare che nel 1938 Robert Goldwater aveva avviato, con la pubblicazione del suo Primitivism in Modern Art, un intenso dibattito culturale nei salotti frequentati dagli artisti, dagli intellettuali, dalla ricca borghesia e dai grandi galleristi, paragonabile a quello avvenuto a Parigi nel 1905 sulla cosiddetta Art nègre, se non addirittura maggiore. Fondamentale e indicativa fu, in tal senso, l’apertura delle prime importanti esposizioni temporanee a carattere monografico nei principali musei e gallerie degli Stati Uniti, primo tra tutti il MoMA di New York, cui la Guggenheim partecipò, seppur senza grande entusiasmo. Quando Ernst nel ’43 lasciò la loro casa a seguito del naufragio della relazione, portò via con sé tutte le opere della sua collezione. Una volta trasferitasi a Venezia, la collezionista iniziò finalmente a interessarsi, stavolta in modo diretto e appassionato, all’arte “primitiva”. Nella primavera del 1959, durante un lungo viaggio in Messico e negli Stati Uniti, visitò la galleria di Carlebach e da lui acquistò un primo ricco nucleo di dodici opere d’arte oceaniche, africane e precolombiane; lei stessa scrive: «Cominciai ad acquistare l’arte precolombiana e primitiva e nelle settimane successive mi ritrovai orgogliosa proprietaria di dodici fantastici oggetti di artigianato: si trattava di maschere e sculture della Nuova Guinea, del Congo Belga, del Sudan Francese, del Perù, del Brasile, del Messico e della Nuova Irlanda». Tale interesse si consolidò dopo il suo rientro a Venezia, e Peggy Guggenheim continuò ad acquistare oggetti di arte “primitiva” un po’ per volta, arrivando a possedere una cinquantina di pezzi, in parte maggiore rimasti nella collezione, in parte passati agli eredi. Venti di questi manufatti furono presentati nel primo grande catalogo della collezione veneziana, curato da Nicolas e Elena Calas, in una specifica sezione intitolata Primitive Art. La collezionista esponeva queste opere accostandole ai dipinti e alle sculture dei suoi artisti preferiti nelle stanze di Palazzo Vernier dei Leoni, come raffinati oggetti d’arredo, come testimoniano numerose fotografie d’epoca conservate nell’archivio fotografico.
L’opera è stata esposta nella mostra Migrating objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, allestita nel padiglione delle esposizioni temporanee del museo dal 15 febbraio 2020 al 10 gennaio 2022 (sospesa temporaneamente per la pandemia di COVID-19).

https://www.guggenheim-venice.it/it/mostre-eventi/mostre/migrating-objects/
https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/maschera-tatanua/

Tecnica esecutiva

Le analisi diagnostiche hanno permesso di ottenere informazioni utili a comprendere la tecnica esecutiva e a caratterizzare i materiali costitutivi.
La maschera è stata realizzata assemblando tra loro più elementi, tenuti insieme da un complesso sistema di fibre vegetali: semirigide (con funzione strutturale), intrecciate, annodate e/o cucite.
Il manufatto è composto da:

  • un casco, ricavato probabilmente da una drupa, che costituisce l’elemento centrale della struttura;
  • una maschera a forma di volto, ottenuta assemblando più elementi lignei, decorata con motivi a intaglio e con disegni geometrici astratti bianchi, rossi e neri a base di bianco di zinco, bianco di titanio, ocre, terre rosse e nero organico;
  • un’acconciatura a cresta realizzata con fibre vegetali colorate, che si innesta sulla fronte della maschera ed è disposta su più livelli, asimmetrici rispetto ai lati destro e sinistro, la cui cromia risulta composta da ocre, minio e terra d’ombra;
  • un paracollo in bark cloth (particolare tipo di tessuto, simile a una carta, ricavato dalla lavorazione della corteccia di alcuni alberi), cucito con fibre vegetali alla parte inferiore della maschera e del casco.

Le parti laterali del casco sono coperte da un materiale plastico pigmentato bianco e nero, simile a uno “stucco”, che riproduce decorazioni geometriche non simmetriche. Dalle analisi i pigmenti risultano essere nero di carbone, gesso e bianco di zinco.
Il legante delle varie policromie non è stato analizzato, ma si presuppone l’impiego di una sostanza naturale di origine animale o vegetale.
Gli occhi sono resi tramite l’inserimento di due opercoli di lumaca di mare, incastonati nella matrice lignea senza l’uso di adesivi o vincoli di altro tipo.

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