Il dogma della Trinità, soggetto dell’opera, è realizzato secondo l’iconografia tradizionale che vede al centro Dio Padre che sorregge Gesù, crocifisso; tra i due è posta la colomba dello Spirito Santo, mentre ai lati della croce, stanno la Vergine e San Giovanni; più sotto, i due committenti-donatori in ginocchio e di profilo, secondo la tipologia ritrattistica del tempo. Una campitura neutra, che suggerisce la presenza di una mensa d’altare, separa l’affresco da un pannello sottostante che ospita la raffigurazione della Morte con lo scheletro di Adamo, accompagnato dall’iscrizione che funge da memento mori «io fu già quel che voi sete: e quel chi son voi ancor sarete». Un’architettura dipinta incornicia la scena. Il sapiente utilizzo della prospettiva monoculare centrale che gli consentì di realizzare uno spazio reale e misurabile, ha fatto supporre che Masaccio fosse stato affiancato nell’esecuzione dal Brunelleschi. Secondo lo studioso Roberto Lunardi, l’affresco era stato progettato per una posizione decentrata sulla parete, rispetto alla finestra della campata, perché il punto di vista, che ne consentiva una visione complessiva da lontano, era dall’ingresso orientale dal cimitero degli avelli, prediletto per tradizione e dal quale la Trinità sarebbe anche stata la prima immagine sacra di tutta la chiesa ad apparire agli occhi dei fedeli.
La cronologia dell’opera è incerta; è risaputo che le uniche opere datate e attribuite all’artista siano il Trittico di San Giovenale del 23 aprile 1422 e il Polittico di Pisa del 1426, opere su tavola. Se si considerano invece gli affreschi della Cappella Brancacci, per confronto si potrebbe avanzare un’ipotesi su base stilistica e tecnica, che porterebbero a vedere la Trinità come un banco di prova, un’opera sperimentale con una tecnica in divenire e da perfezionare. In virtù di queste osservazioni, l’esperienza in Santa Maria Novella sarebbe quindi precedente al ciclo della Brancacci e da collocarsi tra 1424 e il 1425, prima o in contemporanea con l’inizio della decorazione nella cappella della chiesa del Carmine a Firenze (C. Danti, 2004).
La tecnica esecutiva impiegata da Masaccio, secondo la consuetudine della pittura murale del Quattrocento, è prevalentemente quella del buon fresco con il concorso di rifiniture a secco. La successione delle giornate segue l’andamento tradizionale dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, dando precedenza alla incorniciatura architettonica rispetto alla scena. Si sono contate 25 giornate più una per l’esecuzione della Morte nel pannello sottostante. Per quanto riguarda il disegno preparatorio, non è stata ritrovata alcuna sinopia (il trasporto ottocentesco potrebbe aver distrutto questa fase preparatoria), ma sono state rilevate alcune tecniche di ausilio per il riporto del disegno sull’intonaco pittorico: l’incisione diretta in combinazione alla battitura di corda per la realizzazione della struttura architettonica, delle parti geometriche e delle fughe prospettiche, come in corrispondenza della parte sinistra della volta, di alcuni particolari architettonici e dello studio dell’ellisse per la forma in prospettiva della colonna di sinistra; lo spolvero per gli elementi decorativi modulari dell’architrave. Per la realizzazione dei personaggi in basso, si riscontra l’impiego di tecniche di trasposizione dell’immagine differenti: per la figura della Madonna viene utilizzata una quadrettatura realizzata con la battitura di corda per i quadrati più ampi, con l’incisione diretta nelle zone dove i quadrati si infittiscono con la volontà di riprodurre fedelmente il particolare. L’utilizzo di questo sistema, lascia supporre che l’artista disponesse di disegni preparatori in scala ridotta su carta, che poi ha riportato tramite il metodo proporzionale sull’intonaco fresco. Nella figura del San Giovanni invece il disegno viene eseguito secondo le consuetudini del tempo a mano libera. L’attenzione disegnativa è infatti concentrata soprattutto nella metà sinistra della scena. Questa differenza di impostazione fra le parti del dipinto avrebbe dato credito all’ipotesi della collaborazione di Brunelleschi alla costruzione dell’impianto disegnativo. Le analisi di laboratorio hanno identificato le parti di pittura che risultano eseguite a secco: nella veste del Dio Padre e nella manica ed nel risvolto del manto di San Giovanni Azzurrite miscelata a Bianco di Piombo, nel primo caso applicata su una preparazione a fresco grigia, mentre nel secondo direttamente a contatto con l’intonaco e rifinita con Lapislazzuli, il legante è di natura proteica, probabilmente uovo; nella veste del committente, nell’incarnato della Madonna, del San Giovanni e della donatrice, le stesure a base di Cinabro sono state realizzate invece con la tecnica del mezzo fresco, con l’ausilio di un legante, che però non è stato individuato. La doratura delle rosette nei lacunari della volta, rimasta in tracce, è stata realizzata con oro in foglia su foglia di stagno applicata a missione oleosa.
La storia conservativa che caratterizza la Trinità fu travagliata. Conclusosi il Concilio di Trento, a partire dal 1565 la Chiesa di Santa Maria Novella, come tanti altri edifici sacri, subì una radicale opera di ristrutturazione per volere del granduca Cosimo I de’ Medici. Tra i grandiosi altari in pietra, realizzati lungo le pareti su progetto del Vasari, quello del Santo Rosario, fu collocato in corrispondenza della terza campata di sinistra, nella zona in cui si trovava l’affresco raffigurante la Trinità. Su questo nuovo altare, venne posta una tavola con la medesima intitolazione alla Madonna del Rosario, dipinta dallo stesso Vasari in collaborazione con Jacopo Zucchi, celando così definitivamente l’affresco alla vista dei fedeli. È incredibile pensare come solo pochi anni prima lo stesso Vasari, nel capitolo delle Vite che dedicò a Masaccio, spese parole di elogio e ammirazione non solo nei confronti dell’artista, ma anche dell’opera e delle sue grandi qualità prospettiche e illusionistiche. In particolare dedicò un brano proprio alla Trinità: «Ma quello che vi è bellissimo oltre alle figure, è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sia bucato quel muro». Nello scritto del Vasari non vi è menzione della Morte dipinta in basso, citata invece nel Libro di Antonio Billi redatto entro il 1530; quindi l’opera deve essere stata celata, durante quel lasso di tempo. Le ammorsature delle grandi pietre dell’altare vasariano, purtroppo, distrussero praticamente tutta l’incorniciatura della scena sacra, oltre a provocare grandi lacune in corrispondenza dei due donatori e della Vergine. La pittura murale, così nascosta dietro la tavola cinquecentesca per circa tre secoli, fu soggetta a notevoli accumuli di sporco, oltre alle infiltrazioni di pioggia che, provenienti dalla finestra soprastante scorrevano e ristagnavano. Alla metà dell’Ottocento, in pieno clima di revival gotico-medievale la basilica subì un nuovo intervento che portò allo smantellamento delle magniloquenti e monumentali costruzioni vasariane, alleggerite dei loro elementi decorativi ritenuti eccessivi e ridondanti. A partire dal 1857 tutti gli altari, tra cui quello del Rosario vennero rifatti su disegno di Enrico Romoli. Dopo quasi trecento anni, nel 1859, la Trinità di Masaccio (ma non la raffigurazione della Morte) vide nuovamente la luce. La Trinità in questa occasione fu dunque staccata e collocata in controfacciata che, come riferisce il pittore e decoratore Giovanni Garinei, testimone oculare del ritrovamento dell’affresco, era rimasta nuda dopo lo smontaggio di uno degli altari vasariani. Lo stacco dell’affresco fu eseguito dal restauratore Gaetano Bianchi mediante il trasporto dell’affresco insieme allo spessore dell’intonaco. Il dipinto fu ricollocato su un supporto mobile composto da un incannicciato affogato nel gesso, sostenuto da un robusto telaio ligneo, poi inserito nello spazio ricavato nella parete di pietra. Le zone perimetrali, già perdute con la costruzione dell’altare vasariano o danneggiate per l’operazione di stacco, furono reintegrate dal Bianchi ad affresco anche in parte oltre il supporto, direttamente sulla parete di controfacciata. La ricostruzione integrale della cornice rossa della parte alta probabilmente riproponeva il disegno di alcuni lacerti rimasti sul muro, e staccati ed inseriti negli anni cinquanta dal Tintori; mentre il basamento fu ricostruito di fantasia, non essendo ancora stata riscoperta la originaria decorazione raffigurante la Morte. A completamento dell’intervento Bianchi probabilmente compì una sommaria pulitura, mentre tutta la superficie venne ricoperta da un film costituito da un’emulsione di uovo ed olio con funzione consolidante e ravvivante. Questo intervento di stacco, ardito per le dimensioni della pittura staccata in un’unica soluzione, causò alcuni danni all’opera, soprattutto nella parte bassa dove si nota ancora oggi una diffusa frammentazione e sconnessione dell’intonaco. La colla utilizzata per l’operazione di stacco, non completamente rimossa, si era contratta provocando numerosi sollevamenti e cadute della pellicola pittorica, come annotava Tintori durante il restauro degli anni ’50 (1949-51). L’affresco rimase in controfacciata fino al 1952, quando, in seguito al ritrovamento del grande frammento con la Morte sotto un muro (non erano presenti infatti sulla superficie tracce di scialbo). Procacci decise di ricongiungere le due parti come dovevano essere nel sec. XV, smantellando l’altare neo-gotico. Per fare questo lo stesso Tintori, a cui venne affidata la traslazione, strappò le parti di cornice integrate dal Bianchi sul muro di controfacciata riscoprendo i bordi effettivi della pittura masaccesca. La Morte, nonostante rimase nella stessa collocazione in cui fu ritrovata, venne strappata, e posta su un supporto in masonite (1952-54). Le integrazioni ottocentesche già strappate vennero giustapposte incollandole direttamente all’intonaco della navata e infine Tintori si occupò della pulitura della superficie pittorica. Questa operazione si rivelò molto difficile e lunga, vista l’estrema instabilità dello strato pittorico e la presenza di un’innumerevole quantità di materiale estraneo sulla superficie. Tra la Trinità e la Morte restò una fascia priva di pittura, la traccia di una probabile mensa d’altare. L’ultima revisione prima dell’intervento dell’Opificio fu effettuata dallo stesso Tintori, nel 1969, per riparare ai danni dell’alluvione del 1966.
Il supporto ottocentesco realizzato dal Bianchi risultava ben solido e garantiva sufficiente stabilità alla pittura staccata, ciononostante nella zona bassa, segnata da numerose fratture dell’intonaco, alcuni frammenti risultavano staccati.
Analizzando la pellicola pittorica, solo in alcuni punti erano presenti dei sollevamenti di colore, in particolare sul manto della Vergine e sulla volta; in poche aree erano visibili minuscole perdite puntiformi, prodotte da un fenomeno di solfatazione (probabilmente di natura ambientale). Erano presenti ovunque un deposito incoerente (polvere e nerofumo) e una patina giallastra prodotta da un vecchio fissativo (di natura proteica). Tutto ciò nascondeva certamente qualità e brillantezza del colore ma, dopo la rimozione sono risultati più evidenti i vecchi fenomeni di degrado, come ad esempio l’estensione della superficie abrasa, le cadute di colore e, in particolare, i segni delle numerose sgocciolature in corrispondenza del Volto di Dio Padre fino al confine inferiore della pittura. Potrebbero essere la conseguenza del percolamento di un materiale corrosivo probabilmente impiegato per pulire il frontone lapideo dell’altare o la stessa finestra più sopra. Il volto era inoltre deturpato da numerosi e fitti graffi, di cui però non è stato possibile stabilire la causa.
Il pannello di masonite, supporto al frammento con la “Morte” invece aveva subito gli effetti dell’alluvione ed era stato revisionato con il restauro del 1969. Sulla superficie erano presenti tracce di colla animale, utilizzata durante l’operazione di strappo e una patina grigiastra di deposito, si era manifestato inoltre uno scurimento del trattamento estetico delle stuccature.
Le indagini diagnostiche avevano lo scopo di approfondire la conoscenza dei materiali costitutivi e delle tecniche esecutive e di studiare lo stato di conservazione e i trattamenti pregressi. In prima istanza sono state eseguite le riprese fotografiche in luce visibile, diffusa e radente, le indagini fisico-ottiche, con illuminazione in ultravioletto e infine con la tecnica dell’infrarosso falso-colore.
Grazie a questa serie di analisi preventive, sono stati individuati i punti significativi dove effettuare microprelievi. Tutti i campioni sono stati osservati al Microscopio Ottico, mentre solo alcuni al Microscopio Elettronico a Scansione. Per le informazioni sulla composizione dei materiali i campioni sono stati sottoposti a Spettrofotometria Infrarossa in Trasformata di Fourier; per l’analisi dei sali solubili è stata impiegata la tecnica della Cromatografia Ionica.
I risultati hanno messo in luce l’utilizzo della veneda come preparazione dei manti ad azzurrite; per gli incarnati, in corrispondenza della mano della Vergine, l’uso di solfuro di Mercurio (Vermiglione), utilizzato anche, mescolato a Bianco di calce, nel manto rosso del committente; la veste blu del San Giovanni invece è realizzata mescolando Bianco di Piombo ad Azzurrite. Le dorature sono realizzate secondo la tecnica tradizionale, con l’impiego della foglia di stagno e una missione oleosa. Nell’intonaco è stato riscontrato un inquinamento da sali solubili in particolare nitrati, gesso e ossalato calcio. Il film individuato sulla superficie pittorica, di natura proteica, può ricondursi a residui di colla impiegata durante le operazioni di stacco, senza escludere la permanenza di tracce di un antico “beverone” tradizionalmente impiegato per ravvivare i colori dopo interventi di pulitura.
L’operazione di rimozione della polvere, attraverso pennelli morbidi e batuffoli di cotone bagnati, seguiva la fase di preconsolidamento delle scaglie di colore effettuata iniettando resina acrilica al tergo. Le porzioni d’intonaco distaccate sono state assicurate con una malta idraulica contenente una bassa percentuale di resina. Il film proteico è stato rimosso dopo una fase di sperimentazione che ha tenuto conto delle criticità dello stato conservativo dell’opera, come la presenza di gesso nel supporto, lo spessore disomogeneo dell’intonaco originale e la fragilità della materia pittorica. La metodologia prevedeva l’impiego una soluzione di sali di ammonio, mescolata ad un supportante costituito da pasta cellulosica e sepiolite, steso con una spatola in spessori sottili sopra un doppio foglio di carta giapponese, con tempi di contatto da un’ora a pochi minuti. Il contributo del vapore acqueo in qualche caso ha favorito l’ammorbidimento delle sostanze da rimuovere. Per contrastare la formazione di aloni durante l’asciugatura sono state applicate compresse assorbenti.
Il ripristino della stabilità delle fragili campiture cromatiche è stato effettuato attraverso il “metodo del bario”, in linea con la tradizione dell’Istituto, applicato mediante piccoli e sottili impacchi di pasta cellulosica a contatto con la superficie pittorica per poche ore.
Nell’intonaco erano presenti alcuni distacchi dal supporto e diverse discontinuità. Il ripristino dell’adesione dell’intonaco all’incannicciato è stato eseguito mediante iniezioni di una malta idraulica premiscelata. Al fine di poter imitare e ripristinare la superficie originale, si è provveduto a colmare le interruzioni di continuità con uno stucco costituito da calce e sabbia.
Era, infine, necessario restituire continuità all’immagine pittorica, perciò il ritocco ha permesso di attenuare l’emergenza della tonalità dell’intonaco nelle abrasioni mediante velature intonate, ma soprattutto di ricostruire la forma o la campitura sulle stuccature, laddove possibile, mediante selezione pittorica.
Il pannello con la Morte, presentando differenti condizioni conservative, ha previsto un intervento di pulitura mediante la stesura a pennello di una soluzione satura di ammonio carbonato su carta giapponese. Le sostanze sovrapposte così ammorbidite, sono state poi rimosse con batuffoli di cotone impregnati dello stesso solvente. Il supporto, verificato lo stato di degrado nella parte bassa, (molto probabilmente da riferirsi all’alluvione del 1966) è stato assottigliato mediante l’ausilio di mezzi meccanici e quindi rivestito con un sottile strato di vetro-resina, rinforzato all’interno con profili di alluminio. Dopo la fase di stuccatura e ritocco pittorico, l’intervento si è concluso con la rimessa in sede del pannello mediante tasselli e viti poste al di fuori del perimetro grazie a barrette d’acciaio.
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