
Il restauro dell’opera è stato oggetto di una tesi di diploma della S.A.F. dell’Opificio delle Pietre Dure, anno 2009, dal titolo: “La biorimozione delle croste nere dai materiali lapidei: comparazione con le metodologie tradizionali ed applicazione su una scultura del Cimitero degli Inglesi di Firenze”.
Restauratore: Eleonora Gioventù (tesista SAFS)
Relatori: Alessandra Griffo, Paola Franca Lorenzi, Maria Rizzi, Francesca Cappitelli
Premiata alla IV edizione di “Invito a palazzo” dall’Associazione Banche Italiane come migliore tesi per l’anno 2009 del settore della conservazione dei beni culturali.
La scultura, raffigurante uno scheletro bendato e coperto con un mantello che falcia un mazzo di gigli, è opera di Giuseppe Lazzerini (1831/1895), valente scultore carrarese; l’attribuzione è confermata dall’incisione presente sul lato destro della base: “INVENZIONE DEL PADRE / E (SEGU) ITA DA G (IUSEPPE) LAZZERINI”.
Giuseppe Lazzerini, autore di questo indiscutibile capolavoro di minuzia e abilità tecnica, è un discendente di una delle più conosciute botteghe di lapicidi carraresi attiva dal XVII al XX secolo.
La statua è stata realizzata intorno al 1870, come monumento sepolcrale di Andrea Casentini, commissionata dal padre Mariano, addolorato per la precoce morte del figlio, come attesta l’iscrizione incisa sul basamento dell’opera:
“E STUDIOSO GIOVANE / ANDREA DI MARIANO CASENTINI / CARO A TUTTI PER DISTINTE VIRTU’ / CHE NATO IN LONDRA / IL 14 MARZO 1853 / ERA TOLTO ANZITEMPO ALLA VITA IN QUESTA CITTA’ / IL 2 FEBBRAIO 1870 AL DILIGENTE / DESOLATI PADRE E FRATELLO / QUESTA COMMEMORATIVA PIETRA / ESPRESSIONE DI AFFETTO E DOLORE/ PIETOSAMENTE PONEVANO”.
Questa scritta documenta che l’ideazione del monumento si deve al padre del giovane defunto e spiega l’insolita drammaticità della scultura rispetto alla produzione dell’artista.
L’opera è a tutto tondo e realizzata secondo le tecniche tradizionali della scultura (scalpelli e mazzuolo, trapano). Il materiale costitutivo è marmo apuano di mediocre qualità.
Al suo arrivo l’opera si presenta in un pessimo stato di conservazione determinato dalle forme di degrado tipiche delle sculture esposte all’aperto in ambiente urbano: erosione del materiale nelle zone sottoposte a dilavamento, diffusa presenza di patine biologiche e di ampie e spesse croste nere.
Problematica principale del degrado dell’opera è l’indebolimento del materiale costitutivo, che presenta accentuati fenomeni di decoesione, polverizzazione e fessurazione. Ciò è imputabile all’attacco degli inquinanti atmosferici ed è favorito da un modellato molto elaborato oltre che dalla scarsa qualità del materiale costitutivo.
Le operazioni di restauro hanno previsto una fase diagnostica preliminare mirata alla conoscenza del materiale costitutivo, alla identificazione dei fenomeni di degrado e dei materiali di neoformazione (croste nere). In seguito si è provveduto alla fermatura delle macrofratture ed al preconsolidamento delle zone maggiormente decoese sulle quali non è possibile intervenire direttamente nelle successive fasi. La pulitura è stata suddivisa in due momenti: l’applicazione di un trattamento biocida per l’eliminazione dell’attacco biologico ed in seguito la rimozione delle croste nere mediante l’azione combinata di metodologie chimiche, fisiche e biologiche, prestando particolare attenzione a non provocare il distacco della crosta dovuto all’estrema incoerenza del substrato lapideo ad essa sottostante. Verranno infine applicati un trattamento consolidante ed un trattamento protettivo che ovvieranno, ma solo in parte, all’estrema debolezza e fragilità del materiale costitutivo.
Sulla scultura è stata inoltre sperimentata una nuova tecnica di bio-pulitura che si avvale dell’uso di microrganismi (batteri solfato-riduttori) per la rimozione delle croste nere dai materiali lapidei. La sperimentazione, corredata di numerose analisi scientifiche per l’oggettiva valutazione dei risultati, è stata condotta parallelamente su altri manufatti, nel corso di uno studio di tesi della Scuola di Alta Formazione dell’Opificio in collaborazione con Francesca Cappitelli del DiSTAM dell’Università di Milano.
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