Collezione Peggy Guggenheim di Venezia
Direttrice Collezione Peggy Guggenheim: Karole Vail
Department of Visual Art and Art History, Wheaton College, Norton, Massachusetts: Ellen McBreen (prof.ssa associata di storia dell’arte)
National Museum of World Cultures, Amsterdam, Berg en Dal, Leiden e Rotterdam: Fanny Wonu Veys (curatrice)
Guggenheim Museum, New York: Vivien Greene (senior curator, 19th- and Early 20th-Century Art)
Le maschere antropomorfe tatanua, tutte caratterizzate dalle grandi fauci e dall’acconciatura a cresta, provengono generalmente dalla parte settentrionale della Nuova Irlanda. Il termine tatanua fa parte del linguaggio tok pisin, in uso nelle regioni Kara e Tiget, poste a nord dell’isola; nel resto del territorio insulare, invece, queste maschere sono meno diffuse e comunque assumono altri nomi. Anche l’acconciatura è quella tipica degli uomini della Nuova Irlanda, esibita durante particolari occasioni cerimoniali.
Il manufatto appartiene ai primi decenni del XX secolo.
Le maschere tatanua venivano utilizzate durante una complessa serie di rituali per la commemorazione dei defunti, i malangan, che potevano durare diversi mesi e coinvolgere più clan, con l’apporto di ingenti sforzi anche economici. Nella fase finale e culminante del fastoso ciclo cerimoniale, i danzatori indossavano le maschere, abbinandole a un abito di colore rosso. L’esibizione, accompagnata dal suono di tamburi a fessura e di canti, iniziava con un singolo danzatore, cui se ne aggiungevano prima altri due e poi un intero gruppo. Si riteneva che gli spiriti dei defunti abitassero le maschere durante il rito, alla fine del quale si ritiravano dal mondo degli uomini. Per tale ragione, in epoca precoloniale questi manufatti venivano abbandonati o gettati via al termine delle cerimonie, in quanto ritenuti ormai contenitori vuoti e non più utilizzabili.
Alla fine degli anni ’50, Peggy Guggenheim arricchì di opere d’arte allora definite “primitive” la sua dimora veneziana e la sua collezione. Tale interesse trova le sue radici nel periodo della breve e tormentata relazione sentimentale con l’artista surrealista Max Ernst, con il quale visse a New York tra il 1941 e il 1943. È ampiamente documentata, anche dagli stessi racconti della Guggenheim, l’irrefrenabile passione che Ernst aveva soprattutto per manufatti provenienti dalle Americhe e dalle isole oceaniche, che comprava quasi compulsivamente ogni volta che vendeva un suo quadro e con cui riempiva la loro casa newyorkese. La maggior parte delle opere veniva acquistata dal proprietario di una delle maggiori gallerie d’arte di New York, l’ebreo berlinese rifugiato Julius Carlebach, che la collezionista conobbe personalmente nel ’42. Inoltre, vale la pena menzionare che nel 1938 Robert Goldwater aveva avviato, con la pubblicazione del suo Primitivism in Modern Art, un intenso dibattito culturale nei salotti frequentati dagli artisti, dagli intellettuali, dalla ricca borghesia e dai grandi galleristi, paragonabile a quello avvenuto a Parigi nel 1905 sulla cosiddetta Art nègre, se non addirittura maggiore. Fondamentale e indicativa fu, in tal senso, l’apertura delle prime importanti esposizioni temporanee a carattere monografico nei principali musei e gallerie degli Stati Uniti, primo tra tutti il MoMA di New York, cui la Guggenheim partecipò, seppur senza grande entusiasmo. Quando Ernst nel ’43 lasciò la loro casa a seguito del naufragio della relazione, portò via con sé tutte le opere della sua collezione. Una volta trasferitasi a Venezia, la collezionista iniziò finalmente a interessarsi, stavolta in modo diretto e appassionato, all’arte “primitiva”. Nella primavera del 1959, durante un lungo viaggio in Messico e negli Stati Uniti, visitò la galleria di Carlebach e da lui acquistò un primo ricco nucleo di dodici opere d’arte oceaniche, africane e precolombiane; lei stessa scrive: «Cominciai ad acquistare l’arte precolombiana e primitiva e nelle settimane successive mi ritrovai orgogliosa proprietaria di dodici fantastici oggetti di artigianato: si trattava di maschere e sculture della Nuova Guinea, del Congo Belga, del Sudan Francese, del Perù, del Brasile, del Messico e della Nuova Irlanda». Tale interesse si consolidò dopo il suo rientro a Venezia, e Peggy Guggenheim continuò ad acquistare oggetti di arte “primitiva” un po’ per volta, arrivando a possedere una cinquantina di pezzi, in parte maggiore rimasti nella collezione, in parte passati agli eredi. Venti di questi manufatti furono presentati nel primo grande catalogo della collezione veneziana, curato da Nicolas e Elena Calas, in una specifica sezione intitolata Primitive Art. La collezionista esponeva queste opere accostandole ai dipinti e alle sculture dei suoi artisti preferiti nelle stanze di Palazzo Vernier dei Leoni, come raffinati oggetti d’arredo, come testimoniano numerose fotografie d’epoca conservate nell’archivio fotografico.
L’opera è stata esposta nella mostra Migrating objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, allestita nel padiglione delle esposizioni temporanee del museo dal 15 febbraio 2020 al 10 gennaio 2022 (sospesa temporaneamente per la pandemia di COVID-19).
https://www.guggenheim-venice.it/it/mostre-eventi/mostre/migrating-objects/
https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/maschera-tatanua/
Le analisi diagnostiche hanno permesso di ottenere informazioni utili a comprendere la tecnica esecutiva e a caratterizzare i materiali costitutivi.
La maschera è stata realizzata assemblando tra loro più elementi, tenuti insieme da un complesso sistema di fibre vegetali: semirigide (con funzione strutturale), intrecciate, annodate e/o cucite.
Il manufatto è composto da:
Le parti laterali del casco sono coperte da un materiale plastico pigmentato bianco e nero, simile a uno “stucco”, che riproduce decorazioni geometriche non simmetriche. Dalle analisi i pigmenti risultano essere nero di carbone, gesso e bianco di zinco.
Il legante delle varie policromie non è stato analizzato, ma si presuppone l’impiego di una sostanza naturale di origine animale o vegetale.
Gli occhi sono resi tramite l’inserimento di due opercoli di lumaca di mare, incastonati nella matrice lignea senza l’uso di adesivi o vincoli di altro tipo.
Al momento del nostro intervento l’opera versava in un precario stato di conservazione, principalmente a causa dei naturali processi di invecchiamento dei materiali costitutivi (alcuni particolarmente fragili) e dell’usura dovuta all’impiego della maschera come oggetto rituale.
L’intera superficie era interessata da uno spesso strato di depositi di particolato atmosferico, incoerente e coerente, concentrato soprattutto all’interno della bocca, nei sottosquadra dell’intaglio ligneo, fra le fibre della cresta e nel copricollo. Fra le fibre della capigliatura a cresta sono state rinvenute anche delle esuvie.
La maschera lignea risultava strutturalmente stabile. Presentava, invece, alcuni problemi di tenuta il casco, infragilito e parzialmente decoeso.
Le cordicelle di fibre vegetali che ancorano i vari elementi costitutivi alla maschera lignea e al casco erano in parte allentati e infragiliti.
La cromia della cresta era alterata e le fibre vegetali apparivano irrigidite, deformate e in molti casi spezzate o totalmente distaccate.
Tutto l’intreccio del copricollo era molto lacunoso. Di quest’ultimo, purtroppo, rimangono solo alcuni lacerti, più estesi nella parte anteriore e sui lati, mentre la parte retrostante risulta quasi del tutto mancante. La fibra vegetale era piuttosto inaridita e irrigidita, ormai quasi completamente priva delle sue caratteristiche originarie di morbidezza ed elasticità, e interessata da lacerazioni, strappi e decoesione.
Il materiale plastico bianco e nero posto ai lati del casco appariva molto frammentato e presentava sollevamenti e cretti, che in molti casi hanno portato alla formazione di lacune che lasciano intravedere la struttura interna del manufatto. Inoltre, lo “stucco” bianco risultava decoeso, mentre sulle aree nere era presente uno strato dall’aspetto ceroso e ingiallito, forse applicato successivamente.
Infine, il film pittorico sulla maschera era particolarmente decoeso, lacunoso e alterato e l’intera superfice interessata da graffi e abrasioni dovuti all’utilizzo dell’oggetto.
Non sono documentati, anche se alcuni elementi fanno supporre che in passato siano stati eseguiti degli interventi di restauro. Questi potrebbero essere stati realizzati nel luogo d’origine a seguito di danni da usura, in occasione della commercializzazione del manufatto, durante la permanenza nella collezione di Peggy Guggenheim o ancora in concomitanza con l’esposizione della maschera alla mostra Ethnopassion. La collezione d’arte etnica di Peggy Guggenheim tenutasi nel 2008 presso la Galleria Gottardo di Lugano e nel 2009 presso la Fondazione Mazzotta di Milano.
Al momento del nostro intervento erano infatti presenti: accumuli di materiale adesivo in vari punti dell’attaccatura del copricollo al casco; alcune stuccature sulle componenti lignee della maschera; una sostanza filmogena lucida e ingiallita, di consistenza cerosa, in corrispondenza delle decorazioni nere ai lati della calotta cranica.
I fili metallici intrecciati a formare due ganci, presenti sotto la capigliatura a cresta, testimoniano delle soluzioni espositive precedenti a quella attuale, che consiste in un piedistallo di legno.
https://www.guggenheim-venice.it/it/stampa/comunicati-stampa/ethnopassion/
Durante l’intervento di restauro, l’opera è stata posizionata su un nuovo supporto temporaneo, appositamente realizzato per consentire le diverse fasi di lavorazione.
L’intera superficie è stata pulita meccanicamente tramite microaspiratore Faset Mod. 206 (vuotometro impostato a 30-40 kPa), mediante l’impiego di ugelli di differente forma e dimensione. Dove possibile, è stato eseguito il dry cleaning con spugne poliuretaniche del tipo PU sponge.
Successivamente, sono stati eseguiti alcuni test per selezionare il consolidante più idoneo da utilizzare sul manufatto ed è stato individuato, a tal scopo, l’adesivo di origine vegetale Funori. L’alga liofilizzata è stata fatta rigonfiare in acqua demineralizzata a diverse percentuali di concentrazione per 24 ore; la soluzione è stata quindi riscaldata a bagnomaria per 20 minuti a circa 80°C e poi filtrata.
È stato effettuato il consolidamento a pennello delle seguenti aree:
Le fibre vegetali dell’acconciatura a cresta sono state inoltre districate e ridistese, recuperando una notevole estensione in altezza.
Il copricollo, previ test di sensibilità all’acqua, è stato trattato in base alle zone con Funori allo 0,5% e all’1%, steso a pennello gradualmente e talvolta applicato più volte; questo ha permesso di consolidare la fibra e di recuperarne parzialmente le deformazioni. Le lacerazioni, laddove i margini del bark cloth coincidevano, sono state fatte aderire con Funori al 4%, applicato puntualmente a pennello.
I cretti sollevati del materiale plastico sono stati assicurati tramite iniezioni di riempitivo elastico a base di Klucel G al 3% in etanolo, caricato con gesso di Bologna e Arbocel P200 (rapporto 1:1 in peso). Le stuccature sono state poi integrate con colori ad acquerello.
Il film protettivo di consistenza cerosa sullo stucco nero è stato parzialmente assottigliato a bisturi e con tamponcini leggermente imbevuti di acetone, mentre gli accumuli di adesivo, presenti in vari punti del bark cloth, sono stati prima ammorbiditi con acetone e poi rimossi meccanicamente a bisturi. Anche le vecchie stuccature debordanti, presenti sulla mandibola e sotto il mento della maschera, sono state assottigliate a bisturi.
Infine, la policromia del volto è stata equilibrata cromaticamente con integrazioni ad acquerello.
Per quanto concerne la base espositiva, la controforma in schiuma polimerica sintetica, atta a sostenere internamente la maschera, è stata ridotta di dimensioni per consentire l’inserimento di un cuscinetto rimovibile, realizzato con tessuto sintetico 100% poliestere e ovatta sintetica anacida, al fine di ammortizzare i punti di contatto con l’opera e distribuire in modo più uniforme il peso.
Si è deciso di non rimuovere i ganci metallici presenti nella cresta, sia a scopo documentativo, sia perché non costituiscono agenti di degrado.
L’intervento da parte del Settore Restauro Materiali tessili è stato finalizzato a scongiurare che i frammenti del copricollo potessero subire ulteriori danni durante il trasporto dell’opera dai laboratori della Fortezza da Basso al museo veneziano e, in futuro, durante altre possibili movimentazioni. A tale scopo, è stato cucito un tulle di nylon nella parte interna della calotta della maschera, ancorandolo alle fibre intrecciate originali e scegliendolo nella tonalità di colore più adeguata dal punto di vista estetico. Il tulle è stato poi tagliato e sagomato lungo il perimetro dei lacerti originali del copricollo e rigirato sul davanti, per proteggere il dritto e contenere l’intreccio di fibra vegetale. Il “sandwich” di tulle è stato fermato da spilli entomologici in acciaio inossidabile, avendo cura di evitare di forare la fibra vegetale originale. Tale sistema protettivo semi-temporaneo è stato infine rimosso in sede di mostra: gli spilli entomologici sono stati estratti e il tulle è stato accuratamente avvolto all’interno del casco.
∙ N. CALAS, E. CALAS, The Peggy Guggenheim Collection of Modern Art, Harry N. Abrams, New York 1967, pp. 249-263
∙ P. GUGGENHEIM, Una vita per l’arte. Confessioni di una donna che ha amato l’arte e gli artisti, Rizzoli, Milano 1998, p. 371
∙ F.P. CAMPIONE (a cura di), Ethnopassion. La collezione d’arte etnica di Peggy Guggenheim, Mazzotta, Milano 2008, pp. 18-20, 28, 30-38, 45, 174-177
∙ V. GREENE (a cura di), Migrating objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, Venezia 2020, pp. 50, 117-119
∙ S. BASSI, C. NAPOLI, L. PENSABENE BUEMI, L’altro volto del Novecento: arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe. L’esperienza di restauro e manutenzione sugli “oggetti migranti” della Peggy Guggenheim Collection di Venezia, in OPD Restauro n. 32, 2020, pp. 230-242
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