Il Ritratto del Cardinale Bentivoglio, da annoverarsi tra i maggiori capolavori della ritrattistica di ogni tempo, con una cromia giocata su una intensa scala di rossi, fu realizzato da Antoon Van Dyck nel 1623 durante il proprio soggiorno a Roma, ed è oggi conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Il ritratto fu commissionato al Van Dyck da Guido Bentivoglio, nobiluomo di una delle più antiche casate emiliane, divenuto cardinale nel 1621 ed esperto di affari internazionali, vista lunga attività come Nunzio nelle Fiandre e in Francia.
Sebbene l’ambiente artistico romano non avesse immediatamente colto le novità espressive e compositive introdotte da Van Dyck, tanto che fu accolto freddamente anche dal committente, quando il dipinto giunse in Toscana nel 1653, i Medici gli riservarono un posto d’onore nella Tribuna degli Uffizi tra i capolavori di Raffaello e Tiziano. Nel 1672 Giovan Pietro Bellori lo descrive con parole che restituiscono la vivezza quasi febbrile che l’erudito biografo dovette trarre dalla vista della tela: “espresse Antonio il cardinale a sedere con una lettera nelle mani, e quasi l’abbia letta si volge, e portò su la tela la similitudine del volto e lo spirito moderato di quel signore, il qual ritratto si trova oggi in Fiorenza nel palazzo del Gran Duca”. Il ritratto esprime una libertà compositiva innovativa in favore di una raffigurazione meno iconica che si coniuga comunque con le esigenze celebrative del ritratto ufficiale, espressione del potere e del prestigioso ruolo assunti dal protagonista.
Il cardinale è sì ritratto in un’ambientazione imponente, in cui spicca l’inserimento delle solenni colonne, dietro alle quali si apre lo sfondo di paesaggio in cui si apprezza, grazie agli effetti del recente restauro, la presenza di un castello in lontananza; del maestoso drappo a far da quinta alla scena, del trono recante aquile intagliate, simboli araldici della famiglia, e dalla missiva del re di Francia che il cardinale tiene tra le mani, ma appare anche come improvvisamente distratto dalla lettura, restituendo così allo spettatore, attraverso una ricerca introspettiva, la complessa personalità dell’effigiato.
Il testo della lettera, posata sul tavolo di fianco al cardinale, recita: “À mon cousin le cardinal Bentivoglio/ comprotecteur/ des mes affaires/ en cour de Rome”.
Il vaso di fiori sulla sinistra, su cui riverberano cristallini effetti di luce, è indice della sensibile attenzione vandyckiana al dato ottico e naturale.
L’opera fu trasferita nel 1653 a Firenze, donata al Granduca Ferdinando II dal nunzio pontificio nel capoluogo toscano Annibale Bentivoglio. Giunta a Firenze, i Medici le riservarono un posto d’onore nel cuore delle loro collezioni, la Tribuna degli Uffizi.
Nel 1799 l’opera si trova a Palazzo Pitti quando venne requisita dai francesi e trasferita a Parigi, dove, secondo quanto a suo tempo scritto da Gabriella Incerpi, ai primi dell’Ottocento subì un trasporto del colore da tela a tela, una procedura ricordata nei manuali di restauro ottocenteschi, ma rarissimamente documentata nella pratica. Ritornerà a Pitti nel 1815.
L’attenzione posta alla materia dell’opera durante quest’ultimo intervento di restauro ha potuto chiarire alcuni dubbi su quanto realmente occorso al dipinto durante il soggiorno parigino, a seguito dei danni subiti durante il trasferimento in Francia nel 1799 e di altre vicende conservative
Il dipinto ha subito infatti un rarissimo transfert da tela a tela all’inizio dell’Ottocento, in Francia, ed è stato oggetto di successivi interventi di restauro che hanno in parte occultato le informazioni sulla tecnica originaria.
L’attuale dimensione del dipinto è di centimetri 195.8×146.6 (i bordi sono stati tagliati nella loro totalità lungo tutto il perimetro della superficie della pittura, lasciando gli strati pittorici spezzati e irregolari). Né dalle fratture della pittura lungo il perimetro, né dalle lacune della superficie pittorica sono state trovate tracce di alcun filato del supporto originale. È solo dalla lettura della superficie pittorica, marcatamente caratterizzata dall’impronta della tela originaria, che abbiamo potuto dedurre le caratteristiche di quest’ultima: la fibra, probabilmente di lino, è stata tessuta ad armatura tela con fili di simile titolo tra trama e ordito, con un rapporto di 6/7 fili sia in verticale che in orizzontale a cmq. Non si sono notate tracce di cuciture di teli.
La mestica, a base oleosa, è di colore bruno simile a una terra bruna che in fluorescenza XRF risulta ottenuta con pigmenti a base di ferro. Il campionamento ha evidenziato la compresenza di molti granuli di colori diversi quali il minio, l’oltremare, la lacca rossa e il nero di vite finemente macinati che vanno a creare uno strato preparatorio particolarmente compatto, steso in uno strato sottile ed uniforme.
L’artista ha sfruttato la pigmentazione della mestica per realizzare effetti di trasparenza ma soprattutto utilizzandola in luogo del colore come nelle mezze tinte, nel fondale e sotto il merletto. Quest’ultimo è realizzato con corposi tocchi di biacca a suggerire una lavorazione ad ago o fusilli del bianco rocchetto, nelle cui maglie si apprezzano inoltre i sapienti, rapidi e guizzanti colpi di rosso a richiamo della veste sottostante. L’eco di Tiziano si coglie nelle pennellate, sprezzanti, libere, estremamente efficaci nella resa mossa delle superfici e nella fresca felicità coloristica.
Dall’indagine Riflettografica eseguita con scanner VisNIR, non sono emersi tratti di disegno ed è possibile ipotizzare che l’artista abbia eseguito l’impostazione pittorica con un abbozzo sommario realizzato con pennellate di colore corrispondenti alla versione finale.
La pellicola pittorica appare stesa ovunque con spessori diversificati: parte del fondale architettonico ma ancor più la balaustra così come il pavimento sono realizzati con strati sottili e liquidi che sfruttano ‘a risparmio’ il colore bruno della mestica. Lo strato assume invece un aspetto più corposo e vibrante laddove van Dyck realizza lo spettacolare gioco di gradazioni di rosso che tanto caratterizza l’opera, ovvero la mozzetta e la lunga veste in tessuto di seta in taffetas marezzato (o gros de tour marezzato), la tenda e il drappo di velluto rosso che ricopre il tavolino a lato del cardinale. Tutti i rossi sono ottenuti con cinabro e lacca rossa, schiariti con poca biacca per le zone in luce o scuriti con aggiunte di pigmenti a base di ferro e di rame per le campiture cromatiche scure.
Stesure di lacca rossa, ora molto frammentarie e assottigliate, velavano infine la tonalità calda del cinabro per rendere più effervescente il gioco dei riflessi rossi del tessuto.
L’impiego del pigmento a base di rame (azzurrite), è stato sistematico per rafforzare e scurire i bruni e i rossi, la tonalità di azzurro del cielo che si intravede appena tra gli elementi della balaustra, nonché per l’iride degli occhi glauchi del cardinale e per il risvolto in alto della tenda, che dopo la pulitura ha riacquistato la valenza di un blu scuro intenso, e per i verdi del mazzo di fiori.
Con pennellate pastose a base di biacca definisce i bianchi, le campiture più chiare e infine gli incarnati dove aggiunge il cinabro e pigmenti a base di ferro, soprattutto in corrispondenza delle tonalità più scure.
Per i gialli sono state impiegate due differenti tipologie di pigmenti artificiali: i rialzi e le lumeggiature con tonalità “chiara e calda” (gli alamari e le lumeggiature del velluto del drappo alla destra del cardinale e la corda del nodo della tenda alla sua sinistra) sono realizzati con a base di giallo di piombo e stagno; Le tonalità più fredde (dei riflessi dell’aquila del trono dietro la spalla sinistra del Bentivoglio e delle lumeggiature del cuscino su cui siede) vede invece la presenza o compresenza di stagno e di antimonio: un dato questo molto interessante se messo in confronto con la produzione romana del pittore rispetto a quella più copiosa realizzata nelle Fiandre e in Inghilterra.
Al momento del suo arrivo in laboratorio è stata verificata la buona tenuta dell’intervento di foderatura realizzato nel 1977 da Sergio Taiti nel Laboratorio dell’OPD, sia per quanto riguarda il tensionamento su di un nuovo telaio ad espansione, che per la buona tenuta degli strati pittorici dal punto di vista di coesione, adesione e di buona planarità.
La storia conservativa del ritratto ci racconta che già al momento della partenza da Firenze alla volta della Francia, l’opera versava in pessime condizioni, come attesta il Processo Verbale della cassa n° 4 redatto da Sampieri al momento della consegna ai francesi: ‘Un Quadro in tela dipintovi da Vandyck, il Ritratto del Cardinale Bentivoglio, ha molto sofferto in diversi luoghi, e particolarmente nelle mani’.
La verifica conservativa al suo arrivo a Parigi ne conferma lo stato pietoso, con la precisazione che ‘le tele sulle quali è stato dipinto e con le quali è stato rintelato sono marce e tutte a pezzi (segno che l’opera era stata quindi già foderata), la pittura si distacca su tutta la superficie. Ha bisogno di un rapido intervento di restauro’.
Quando il dipinto ritorna a Palazzo Pitti nel 1815, il suo stato viene così descritto: ‘Ritratto del C.le Bentivoglio di Vandick in Tela rovinatissimo nel primo viaggio, la tela lacera l’hanno restaurato e foderato alla meglio che hanno saputo’ .
Le notizie riguardo quanto occorsogli in Francia sono laconiche, inesatte e incomplete, come quelle trovate da Gilberte Mâle in un documento d’archivio francese in cui il restauratore Hacquin ‘avvisa l’Amministrazione dia ordine perché si vada al suo atelier a riprendere un dipinto di Vandick il ritratto del Cardinale Bentivoglio che è appena stato rintelato’. La rintelatura fu poi seguita dalle operazioni di ‘ Netoyez, couvert quantitè de mastique, restaurè (pittorico?) et vernis’ a cura del restauratore Michau .
Non si hanno notizie di ulteriori restauri fino al 1955, anno in cui la tela viene sottoposta, tra il 26 aprile e il 13 maggio, ad un intervento esclusivamente estetico a cura del restauratore Aldo Rettori: ‘sono state ricoperte certe macchie di ridipintura che col tempo erano molto aumentate di colore e ripetute con intenzione di miglioramento. Il restauro pittorico è stato praticato solo con colori a vernice’.
A seguito delle indicazioni forniteci da Hacquin, è dunque di estremo interesse quanto riscontrato e annotato da Sergio Taiti nel 1977: ‘Colore in quasi tutta la superficie pericolante, poiché distaccato dal supporto e dalla preparazione. In molte zone il colore si è aggrinzito slittando e sopramettendosi, ha formato superfici alterate e molto compromesse vedi specialmente zone della testa, delle mani, etc. Le parti in rilievo del colore, manicotti della cotta per esempio sono stati schiacciati dalla stiratura nel vecchio intervento e si trovano addirittura incastrati dentro la preparazione’. ‘Sicuramente il dipinto ha subito un intervento di trasporto del colore, poiché dietro una prima grossa tela di rintelatura si sono trovate due tele di refe sottilissime e di diverso colore e prima di queste un’altra tela assai sottile; nessuna traccia di tela originale. Molto probabile che l’operazione di trasporto abbia provocato i danni al colore di cui sopra. Infatti gli aggrinzimenti, slittamenti, i ringrossi di colore soprammesso sono tutti segni di danni dovuti e attribuibili a questo intervento non eseguito correttamente’.
L’analisi della superficie pittorica ha messo in evidenza una situazione conservativa risultato di un’antica e profonda sofferenza a cui tutti gli strati sono stati sottoposti a seguito di operazioni certamente traumatiche o quantomeno invasive: oltre ai raggrinzimenti pittorici descritti da Taiti, l’intera superficie è caratterizzata da una rete di craquelure esasperata e di fratture più o meno accentuate da zona a zona, ora comunque stabili.
Numerosi sono i ritocchi pittorici concentrati soprattutto lungo i bordi, che vanno a intonare stuccature eseguite, come i ritocchi, in tempi diversi con materiali di varia natura e colore: sono state trovate stuccature a base di gesso e colla bianche ma anche di colore bruno chiaro o nero sul pavimento, rosso sull’abito cardinalizio; altre di colore chiaro ma chiaramente a base oleosa, con una conseguente consistenza più dura e rigida, sono state individuate sugli incarnati, come nella lacuna che interessa la mano sinistra del Bentivoglio.
Ciò che è apparso invece evidente da tutti i punti sopra descritti, è la presenza, a diretto contatto della mestica, di una successione di tele, le prime tre incollate tra loro, riconducibili a quanto riportato da Taiti.
Partendo da sotto la mestica, in ordine di sequenza, si vedono infatti una sottilissima tela a ‘rete’ rada costituita da filati di colore chiaro a geometria romboidale (‘tela di refe’ menzionata da Taiti), al di sotto della quale appare un’altra sottilissima ‘rete’ con filati di colore nero che simula un’armatura tela anch’essa molto rada (altra ‘tela di refe’-Taiti): entrambi ‘i filati in base alle caratteristiche morfologiche sono riconducibili a fibre di origine animale (proteiche) ovvero seta’.
Segue con certezza la presenza di una tela, armatura tela, di colore giallino di canapa, con una densità di 9 fili in trama e 12 in ordito (la ‘tela assai sottile’ Taiti) che riveste per intero lo spessore del telaio, ed infine un’ultima tela di colore grigio chiaro in lino, con un rapporto di 11 fili in verticale x 9 in orizzontale a centimetro, posta in essere con la foderatura del 1977 e che sostituisce la tela ‘grossa di rintelatura’ asportata da Taiti .
Ne consegue che il dipinto è stato sí più volte sottoposto a rintelatura, ma sarebbe più corretto intendere la presenza della tela di canapa (quella a diretto contatto con le due tele in fibra di seta), come facente parte di una delle fasi dell’intervento di trasporto del colore da tela a tela, che a questo punto senza dubbio alcuno, quest’opera ha subito. Il trasporto può essere stato realizzato anche successivamente all’intervento di Hacquin, come scritto da Mâle a seguito dello scambio di opinioni con Gabriella Incerpi sulla scorta delle osservazioni di Taiti, anche se appare strano che non se ne conservi memoria, soprattutto se realizzato a Firenze. L’esame dell’opera, come è qui dimostrato, attesta la sicura assenza di una tela originaria e, dunque, è fuor di ogni dubbio che il dipinto abbia subito un trasporto del colore.
Durante le fasi della pulitura sono emerse delle zone con colore particolarmente abraso, caratterizzate da un andamento circolare, concentrate sul fondo alla sinistra del trono e sul pavimento. Sulla porpora cardinalizia sono state inoltre riscontrate rotture e abrasioni delle velature originarie realizzate con lacca rossa, in parte ricucite in passato. Le abrasioni e le mancanze più accentuate sono emerse sulle mani del cardinale dove si è riscontrato uno schiacciamento dei maggiori rilievi di colore e le tracce di una serie di interventi passati.
Il restauro attuale, dopo aver sottoposto l’opera ad una mirata documentazione fotografica e a una serie di indagini diagnostiche, ha preso avvio con l’intervento di pulitura della superficie pittorica, segnata da numerosi ritocchi alterati eseguiti sia a vernice su di una base a tempera, che a olio, e da strati di vernice fortemente ingialliti. I numerosi ritocchi erano in parte riferibili anche all’intervento del 1955 ma pensiamo anche a tempi molto più recenti come testimoniano le riprese in fluorescenza UV.
La pulitura si è suddivisa in più fasi: l’assottigliamento della vernice più recente, seppur molto alterata, è stato ottenuto con un solvente composto da isottano e acetone con Fd 77 supportato in emulsione stearica; l’asportazione dei ritocchi alterati, ha richiesto un diversificato trattamento a seconda del legante pittorico, a tempera o ad olio, con cui erano stati realizzati.
Tra i caratteri in nero dell’iscrizione, rafforzati pittoricamente nel tempo, ‘A’ mon cousin le Cardinal Bentivoglio comprotecteur / de mes ‘ ffaires/ en cour de Rome’, si intravedono parzialmente anche quelli di una prima versione pittorica creando così una leggera confusione nella lettura: la ricerca del testo precedente attraverso indagini a diverse lunghezze d’onda non è però approdata a nessuna novità.
Una scoperta che invece ha cambiato di non poco la scena dell’opera è stata possibile attraverso la rimozione di una bruna, tenace e antica ridipintura a base di Terre e nero bituminoso, che prendeva avvio dal fusto della prima colonna alla destra del cardinale fino a collegarsi a quella posta dietro il trono, occultando sia la stretta luce tra le prime due colonne che il riscoperto paesaggio con il chiaro palazzo immerso in un verde segnato da rigagnoli di acqua. Per le stesure sottili del cielo, che appare attualmente con toni quasi crepuscolari, anche a causa di una vecchia drastica pulitura, l’artista ha utilizzato l’azzurro di smalto (un vetro potassico intensamente colorato col cobalto), che appare fortemente imbrunito a causa della caratteristica perdita di colore, mentre per le pennellate più corpose ed evidenti ha utilizzato il pigmento a base di rame (azzurrite) e bianco di piombo.
Il recupero del cielo, particolarmente difficoltoso, ha necessitato dell’apporto di un solvent Surfactant gel a pH 8- 8,5 con alcool isopropilico, alcool Benzilico e TEA, sempre sotto il controllo del microscopio ottico.
Sono stati rimossi completamente e sostituiti solo gli stucchi a cera e resina emersi sul lato inferiore. Altri vecchi stucchi di epoche e materiali diversi sono stati rettificati e completati, a gesso e colla, con un accurato collegamento materico alla superficie circostante.
L’integrazione pittorica ha preso avvio dalla stesura delle basi cromatiche a tempera intonate alle diverse campiture, per giungere, dopo una leggera verniciatura con mastice in essenza di petrolio stesa a pennello, all’intonazione definitiva a tratteggio con colori ad acquerello e, laddove necessario, con colori a vernice Gamblin Conservation Colors. La protezione finale del film pittorico è stata eseguita a spruzzo con sottilissimi film di vernice con la stessa composizione della stesura intermedia.
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